Discorso di insediamento del Sindaco Massimo
Bogianckino, 23 settembre 1985
Testo dell’intervento
che Massimo Bogianckino ha svolto in Consiglio comunale alle ore 3 di questa
mattina subito dopo la sua elezione a Sindaco di Firenze
Signor presidente, Signori Consiglieri, con emozione,
nell’assumere così importanti responsabilità desidero rivolgere il mio saluto a
questo Consiglio comunale. Non solo a chi mi ha eletto, ma anche – con gli
stessi sentimenti – ai rappresentanti dell’opposizione. Perché il mio saluto e
l’espressione della mia devozione vanno alla città di Firenze tutta intera. Una
città della quale sono figlio per scelta e le scelte contano più delle
circostanze anagrafiche.
E
poi, se non solo figlio sono “nipote” essendo mio padre fiorentino.
Il
momento che noi viviamo richiede convergenze più ampie della restrittiva realtà
dei numeri degli appartenenti alla maggioranza. Sarebbe grave errore
richiudersi perennemente e a forza, entro schemi precostituiti di maggioranze e
di opposizione.
Ricerchiamo
nei problemi – ogni qualvolta sia possibile - i comuni denominatori che ci uniscono.
So che non è possibile teorizzare incontri concordi a tempo indeterminato, essi
possono verificarsi solo in presenza di taluni obiettivi; ma sono questi, in realtà,
quelli prioritari. Che il dibattito si sviluppi poi naturalmente, secondo la
logica democratica.
In
un mondo che tutti noi vogliamo informato ad un autentico pluralismo culturale
ed economico – quando anche politico, il concetto di democrazia altro non è che
la istituzionalizzazione degli antagonismi. Questi antagonismi vanno dunque
difesi e rispettati.
Nelle
poche sedute di questo Consiglio molto ho appreso, ma mi sono spesso
meravigliato che siano stati usati toni spropositati.
È
vero – come diceva Pascal – che “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione
ignora”; ma ho sentito affermazioni inaccettabili: per esempio, che
l’antagonismo politico deve sfociare in una avversione umana; che esistono
comportamenti mafiosi all’interno di questo consiglio; che taluno o qualche
gruppo politico si appresta a porre le mani sulla città; che si è aperta la
caccia alle poltrone per interessi
personali, per “lucrose posizioni di potere”, cedendo alle pressioni
delle “cosche”.
Affermazioni
così gravi ma così generiche possono essere orientate in tutte le direzioni.
Chi dà ad esse libero corso, è certamente uomo d’onore, ma in questo consesso
si tramuta in uomo fazioso: “Senatores boni viri, senatus mala bestia”.
Il
mio invito è dunque ad una tolleranza convinta, scelta come metodo e non
ipocritamente come sinonimo clandestino dello scetticismo.
Nella
istituzionalizzazione degli antagonismi noi riconosciamo implicitamente la
ragion d’essere ed il potenziale contributo attivo di tutte le parti politiche;
anche di quei movimenti che si oppongono tenacemente ai partiti tradizionali,
perché individuano – estraendoli e isolandoli dal tutto – alcuni problemi fin
qui sottovalutati o individuati con gravi ritardi dalle forze politiche.
Nel
nostro paese, dove vige addirittura l’idolatria del proporzionalismo puro, è
giocoforza tuttavia che la governabilità prenda le mosse dal numero degli
eletti.
Non
ho certo titubanza a riaffermare la mia incondizionata appartenenza alla parte
politica che qui mi ha portato; ma per inclinazione, e oggi ormai per ufficio,
debbo essere non al di sopra ma al di fuori delle parti.
Mi
sarà però consentito di accennare alla posizione di frontiera e di cerniera
propria del Partito socialista, che deve
- senza fuorviarsi o tradirsi – assicurare la governabilità della cosa
pubblica: posizione che solo per forzatura polemica può essere considerata
“comoda”; e del resto le nostre poltrone (quelle di noi tutti), come le si vuol
chiamare, sono in realtà scomodi, scomodissimi sgabelli.
A
più riprese e con puntuali ricorrenze è stata lanciata – da una parte e
dall’altra (come pratica aberrante) – l’accusa di trasformismo.
Cessiamo
dall’affidarci alle certezze non accertate e di auspicare un’Italia grigia ed
uniforme, tutta e sempre governata dagli stessi segni politici; anche perché
dopotutto nell’Italia del 1880 con la prativa del trasformismo Depretis aboliva
la tassa sul macinato ed allargava la fascia degli elettori (da mezzo milione a
tre milioni circa).
Se
il “trasformismo di oggi” arriva a conclusioni analoghe rapportato alle
condizioni della nostra società, non vi sarà luogo di lamentarsene.
So
bene che all’ombra del “gioco” – diciamo piuttosto: della “pratica “politica –
hanno spesso fiorito – da sempre e dovunque – scaltre o svergognate operazioni sta
a noi, in concorsi di intenti, vigilare e mettere in atto ogni meccanismo per
impedirle - se poi si dovessero
malauguratamente verificare – additarle al disprezzo, promuovere la condanna.
La
nuova giunta ora deve fare; l’efficienza è un problema di scelta politica:
subito bisognerà operare e - ne sono certo – con il più aperto spirito di
lealtà e di concordia; e in particolare in stretta collaborazione con i capi
delegazioni delle varie parti politiche.
È
difficile stabilire delle priorità: in una “città ideale”, ogni problema di cui
la pubblica amministrazione debba occuparsi è essenziale all’ordinato
svolgimento della vita cittadina.
Occorrerà
ben inteso stabilire un ordine dei problemi da affrontare; ma sarà facile
riscontrare che da esse scaturiscono numerose altre implicazioni altrettanto
importanti.
È
perfino ovvio che in prima linea si ponda l’obiettivo di favorire la piena
occupazione, unico antidoto all’emarginazione; poi ancora di promuovere
iniziative per consentire l’alloggio a chi ne è sprovvisto per mancanza di
mezzi; di tutelare l’ambiente chi sono legati i problemi dei trasporti, della
viabilità, dei parcheggi. Firenze non deve essere condannata a soffocare ( o ad esplodere) entro i suoi
viali o ad espandersi in una periferia squallida. Ma ci sono spazi – voi lo
sapete bene - cui progetti di
utilizzazione, se ben sorvegliati, possono divenire polmoni e serbatoi
decongestionino – e in definitiva rianimino – il Centro Sorico; e che possono
consentire a Firenze di recuperare un volto moderno. Dopo Poggi (buono o
cattivo che fosse, come lo fu Hausmann a Parigi), non contiamo negli ultimi 50
anni che gli interventi di Michelucci ( con la stazione) e di Nervi (per lo stadio
comunale) ma è poco per una città che si pretende e deve essere vivace e
internazionale, quel gesto architettonico che solo compone i tratti di una
città culturalmente valida ed aggiornata.
In
questo campo bisogna operare con concordi di intenti; e così pure trovare o
rifiutare – con prudenza ma senza lungaggini altre soluzioni su problemi
qualificanti ma minori perché non definitivi. Cosa rimarrebbe altrimenti del
“provando e riprovando” della fiorentina Accademia del Cimento? un ricordo
sbiadito.
D’accordo:
sui grandi progetti si dovrà tornare per una più approfondita disamina e
riflessione; ma senza abbandonarsi a tempi intollerabili.
“Serit
arbore quae altero saeculo prosint “ dice Cicerone, e siamo anche noi disposti
a piantare alberi di cui non vedremo i frutti; ma abbiamo una sola vita a
disposizione e sarebbe frustrante affidarsi a tempi lunghi; che oltretutto non garantiscono nulla, futurologi, urbanisti
ed economisti essedo regolarmente contraddetti dagli eventi.
Una
sola futurologa aveva sempre ragione, ma non era mai creduta: Cassandra.
Altra
esigenza largamente avvertita è quella di un turismo più ordinato; ma chi pensa
ad eliminare un turismo di massa, a stabilire cordoni sanitari intorno alla
città, è veramente un patetico sopravvissuto.
E
poi: quando ci si chiude, ci si condanna all’asfissia; il culto della “fiorentinità”
è positivo solo se è associato ad un concetto di appartenenza alla tradizione,
alla bellezza e alla potenziale vitalità di una città. E non ad un concetto di
identità quasi fossimo una specie diversa.
Un
altro aspetto è prioritario: è quello di Firenze città di cultura; e tanto più
oggi che Firenze – con una precipitazione piena di insidie – è stata dichiarata
dalla comunità europea “ Capitale culturale europea” per il 1986.
Molte
altre città ambivano a questo riconoscimento e ancora pochi giorni fa, il
Ministro della cultura francese – J. Lang – (nostro sostenitore) mi spronava –
se fossi stato eletto sindaco – a non restare indietro ai notevoli risultati
conseguiti nel 1 985 ad Atene, ad esigere dal nostro governo aiuti, ad
interessare altri Capi di Stato europei.
Dovremo
recuperare il tempo passato – o perduto, senza preoccuparci della saccenteria
di chi ci parlerà di effimero, un’altra certezza non accettata.
Ma
gli impegni per così dire spettacolari (termine improprio) devono coniugarsi
con l’impegno dell’amministrazione a stabilire un rapporto più stretto e
fecondo con le istituzioni il cui fine è quello di produrre attività
artistiche, scientifiche, culturali. E in primo luogo con l’università, con i
suoi docenti, piegandosi con curiosità sulle ricerche che visi conducono.
Confrontarsi, quindi, anche con i problemi degli studenti. Son passati i tempi
– anche recenti- nei quali le giovani generazioni si abbandonavano a
soprassalti, che contenevano una parte di verità, ma che avevano il respiro corto,
come quello dei cattivi sogni; quando si ritenevano le Università incapaci di
ridurre le ineguaglianze e quindi sclerotizzate e impigliate in una cultura di
lesse.
Oggi
i problemi sono di altra natura, e l’appropriazione del patrimoni culturale da
parte di chi finora ne era stato escluso, ha abolito ogni – o quasi- residua
barriera; e forse il pensiero – quello che si forma e si sviluppa nelle aule
accademiche – può trovarsi alle soglie di una nuova umanesimo.
A
noi anche di avvantaggiarsene per legarlo ai problemi della nostra società.
Nel
pieno rispetto delle prerogative e delle responsabilità delegate ai membri della giunta, i l sindaco non si
limiterà ad essere un notaio.
Nel
giro di pochi gironi spero di liberarmi del peso dei miei più importanti
impegni parigini; e al comune dedicherò quanto più mi sarà consentito dalle mie
energie: e se non saranno tutti è perché disposizioni anacronistiche ed
immorali non riconoscono né al Sindaco, né agli assessori di che vivere di quel
che viene loro dato. I nostri legislatori darebbero prova di maggior saggezza
ripristinando l’eleggibilità per censo, piuttosto che continuare a nascondere
la testa sotto la sabbia.
Nel
nostro operare avremo ben presente l’impegno della difesa delle nostre
autonomie, e l’autonomia dei nostri compiti istituzionali. Che è quanto
dire per usare una terminologia teatrale
(Cons. Pallanti) – che non ci sentiamo buttati sulla ribalta con un copione in
mano. Qui cercheremo di interpretare le esigenze della città con sagacia e
sacrificio, senza raccogliere le inevitabili provocazioni; e con il vostro
contributo – Signori sonsiglieri - ; senza arenarci, mi auguro nelle secche
delle facondie e dei bizantinismi, per poi essere costretti ad adottare
sbrigativamente decine di delibere.
Questo
Consiglio è largamente rinnovato: non vogliamo rifiutare quanto ci è stato
legato dalle precedenti amministrazioni, ma non vogliamo essere sosia di
nessuno.
Certamente
la nuova giunta sarà da me orientata verso metodi di prudenza, di equilibrio,
di mediazione tra le varie tesi. Ma non con l’intento di “cambiare appena
qualche cosa perché nulla cambi”.
La
funzione del Sindaco e della giunta non è sempre quella della mediazione. E se
è vero che occorre difendere gli imprenditori privati quando, rifiutando la banalizzazione,
corrono i rischi della innovazione e non intendono il profitto come fine, ma
come mezzo; è ben vero che non possiamo restare indifferenti ogniqualvolta
responsabilità personali o ordinamenti economici e sociali superati addossano
sacrifici intollerabili ai più deboli.
L’Amministrazione
comunale ha il dovere di dare prova della sua solidarietà quando crisi
radicate, improvvise e imprevedibili, sono sfruttate da managers, da affaristi
o da demagoghi.
Solo
così l’Amministrazione non viene meno ai suoi compiti di autonomia, di libertà,
di giustizia.
È
ben vero che la sopraffazione non crea più persone lacere e smunte, ma essa
crea nuovi poveri e analfabeti di ritorno, o , peggio, ci trasforma in macchine
egoiste, stupide e soddisfatte, che si credono libere mentre sono asservite a
evasioni e piaceri sterili. Nessuno crede più all’opportunità di una costante
ingerenza della mano pubblica,
presuntuosa e paralizzante, che crea solo apatia e disorientamento; ma è
altrettanto pericoloso affidarsi unicamente ai grandi imprenditori credendo che
esseri siano depositari della facoltà di scoprire d’istinto quale sia
l’interesse generale.
La
nostra società si presenta con aspetti sconcertanti: sappiamo che oggi nessuna
società da sola ha la capacità di avere uno sviluppo autonomo e polivalente; ma
restiamo sgomenti ad attoniti di fronte ai giochi pericolosi dei grandi
menagers: case editrici, fonti energetiche, società immobiliari, armi, prodotti
agro-alienatari, calcolatori, quotidiani, stazioni televisive, operazioni
valutarie, sale cinematografiche e da gioco, tutto si confonde e di concerta
nelle mani di un idolo sovranazionale dal viso macabro , ma sapientemente
imbellettato.
Meno
ci sorprenderemmo se le cordate anonime e via dicendo fossero condotte da privati
stimolati dal Moloch del profitto. Ma in realtà per lo più giochi son condotti
da “grand commis”, da imprenditori
pubblici, da managers del para-stato,
forse anche di grande talento, ma nei quali non sai se è più evidente la
libidine del potere o la cupidigia del servilismo.
La
società umana si ferisce e si guarisce: mette in essere mutazioni, progressi,
deformazioni; ma anche anticorpi.
Siamo
noi stessi che dobbiamo mettere in atto i contropoteri necessari; o altrimenti
Orwell aveva sbagliato di appena qualche anno e nel 1990 - o giù di lì – saremo in preda a voci imperiose – che poi possono
essere anche melliflue come le colonne sonore di un super market – voci
imperiose che accompagneranno tutto il percorso della nostra vita: dalla culla
alla basa.
Vorrei
concludere incitando noi tutti a privilegiare – nella condizione della nostra
città – i l momento amministrativo su quello politico. Essi non sono scissi –
ne sono ben cosciente- ma gli aghi della bilancia non sono immobili ed
oscillano a nostro volere.
Vorrei
che abbandonassimo ogni tracotanza; e non credessimo, anche bene operando, di
distribuire la felicità: sarebbe una presunzione madre di fanatismo.
“quando
anche si saranno diminuite al massimo le inutili servitù e le disgrazie non
necessarie (dice Yourcenar) – resterà pur sempre la lunga serie dei mali
inevitabili:
la
morte
la
vecchiaia
le
malattie incurabili
l’amore
non corrisposto
l’amicizia
respinta o tradita
la
mediocrità di una vita meno vasta dei nostri progetti e più grigia dei nostri
sogni.
In
definitiva: tutti i dolori della natura divina delle cose”
Ma
basta ora di questo: la storia è fatta di tanti dati gettati; con riflessione
ma con fiducia gettiamo i nostri, per la nostra città.