DOCUMENTI
Il 25
luglio 1943
Sandro
Pertini rievoca in una testimonianza raccolta da Enzo Biagi le
circostanze in cui apprese la notizia della caduta del fascismo e
gli eventi successivi.
Domenica
25 luglio: una serata come tutte le altre. Quando la radio diede
il comunicato ci avevano gi� rinchiusi nel camerone. Eravamo pi�
di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo ,
Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c'erano
Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d'azione, e anche
degli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente,
che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di
concentramento francesi. Alcuni di noi, ritenuti
"pericolosissimi", godevano di un trattamento speciale:
venivano sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi
che avevano la consegna di pedinarmi erano costernati. Un agente
grid�: "C'� una comunicazione importante: tutti in
piazza". Era l� che ci riunivano per l'appello; quando
veniva letto il nostro nome bisognava rispondere
"Presente". Una guardia non seppe star zitta, e si lasci�
scappare una notizia che aspettavamo da vent'anni: "Hanno
arrestato Mussolini".
Scoprimmo cos� che c'era un nuovo governo, presieduto dal
maresciallo Badoglio, e che la guerra continuava. Scoppi� un
applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorosa, il
sentimento che prevalse fu il senso di angoscia per quello che ci
aspettava: una eredit� fallimentare. Presi subito contatto con
alcuni compagni: "Se non stiamo attenti", dissi "pu�
accadere qualcosa di grave". Costituimmo un comitato, ne
facevano parte, ricordo, anche un albanese, che fu ucciso al
ritorno in patria, e un libertario, Giovanni Damaschi, impiccato
poi durante la lotta partigiana. Chiedemmo di essere ricevuti dal
direttore della colonia penale, il commissario Guida, che divent�
poi il Questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era
pallido, nervoso, aveva gi� fatto togliere il ritratto del duce.
Gli spiegai che da quel momento era il comitato che comandava, e
lui doveva collaborare, e come primo gesto, come prima prova di
conversione era opportuno che impartisse l'ordine alla Milizia di
smetterla di tenerci dietro; e quei giovanotti avrebbero fatto
anche bene a togliersi la camicia nera e i distintivi e le cimici,
come le chiamavano. Il dottor Guida poteva, saggiamente, per
evitare inconvenienti incorporarli nell'esercito. Gli chiedemmo di
far presente, con forte urgenza, al ministero dell'Interno, che
c'era una logica conseguenza dei fatti: dovevamo essere tutti
liberati e senza troppe formalit�.
Capivamo che, se i sorveglianti fossero intervenuti per frenare,
controllare, sarebbe scoppiata una rissa furibonda, un macello.
L'animo di molti era esasperato. Arrivai persino a disporre che le
osterie servissero soltanto il vino necessario per consumare il
pasto. Una sera fui fermato da due detenuti: "Hai fatto
bene", mi dissero "ma non dovevi proibire che si bevesse
a volont�". Incontrai uno con un fiasco in mano, ubriaco, e
cerc� di giustificarsi; c'era nella voce come un singhiozzo:
"Ho tanto atteso questo momento". Noi, laggi�, vivevamo
secondo regole immutate, che dovevano essere rispettate con
rigore: si poteva uscire dagli stanzoni, dove alloggiavano dalle
tre alle cinquanta persone, verso le otto del mattino, bisognava
rientrare per le otto di sera. Non si poteva superare un certo
limite, appunto il confino. Camilla Ravera racconta nelle sue
memorie che riusc� finalmente a scoprire le strade sassose, le
siepi gialle dei fichi d'India, il mare grande e azzurro che ci
circondava: immagini che erano vietate.
Il tempo, nell'attesa, passava lentamente, continuava ad arrivare
il battello che partiva da Gaeta e trasportava i rifornimenti, la
posta, i giornali; quando doveva sbarcare bestiame non c'era
l'attracco, lo buttavano in acqua, con forti urla lo spingevano
alla riva. Vedemmo arrivare anche una corvetta, che gett�
l'ancora in una insenatura. A bordo c'era Mussolini. Scesero dei
funzionari della Sicurezza, e avevano gi� deciso: lo avrebbero
scaricato l�, ma ad un tratto si imbatterono in un ufficiale
tedesco. Chiesero a Guida cosa ci stava a fare e seppero che sulla
costa c'era una batteria antiaerea , con cento soldati. Allora
pensarono di cambiare rotta. Non tenevano in alcun conto la nostra
presenza e il rischio che comportava. Andammo subito dal direttore
per fargli presente il pericolo; ci disse: "So perch� siete
venuti, ma state tranquilli. Lo hanno gi� portato a Ponza".
Lo misero nella casa dove lui aveva fatto alloggiare Ras Immir�,
l'abissino che aveva guidato le truppe del Negus e che, dopo la
sconfitta, rifiut� di sottomettersi. Era un uomo pieno di dignit�,
alto, severo, portava un lungo mantello nero. Mussolini io lo vidi
una sola volta: all'arcivescovado di Milano, nell'aprile del 1945,
lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia
livida, distrutto.
Tutte le mattine io andavo da Guida, per dargli le disposizioni. A
Roma si muovevano molto adagio. Continuavamo a vivere secondo le
nostre consuete abitudini. Ricevevamo la "mazzetta", una
quota per acquistare i viveri: si versava un tanto, quelli del PCI
avevano organizzato delle mense collettive, c'erano dei cuochi che
preparavano il pranzo e la cena per tutti. Ognuno di noi, a turno,
doveva fare il cameriere o il lavapiatti, apparecchiare, ripulire
il refettorio. I comunisti dedicavano molte ore allo studio,
avevano la loro scuola e quando arrivava materiale clandestino
dall'Unione Sovietica o da Parigi, discutevano le tesi politiche e
non sempre erano d'accordo, cos� nascevano dure condanne e
drammatici silenzi.
Ed ecco il fausto momento: part� finalmente il primo veliero, ci
furono molti abbracci, e quelli che se ne andavano stavano
aggrappati alle sartie per salutarci, e noi eravamo l� sul molo,
quelli sventolavano i fazzoletti, c'era un confinato che aveva
portato con s� il bombardino, lo aveva salvato nelle trincee
delle Asturie, nei campi di Vichy, attacc� l'Inno di Mameli e noi
ci mettemmo a cantare, con passione, con ira, "va fuori
d'Italia", e quelli della Wehrmacht che capivano, ci
fissavano cupi. Noi non dovevamo avere contatti con la
popolazione, e temendo il peggio, lo scatenarsi di chiss� quali
cupidigie, tutte le ragazze, le donne giovani, erano state
allontanate. Allora io dissi a Guida che potevano ritornare, non
sarebbe accaduto niente.
Un giorno il direttore mi mand� a chiamare: "Ho una bella
notizia per voi. E' arrivato un telegramma che dispone per la
vostra liberazione". "Grazie, dissi, per� non me ne
vado finch� qui resta uno solo di noi". Ma Camilla
Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale,
Terracini, e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a
perorare la causa dei detenuti, e cos� non diedi pace a Senise,
Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni. Li andavo a
trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei
confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero
generale, e l'argomento li convinse. Quando arriv� l'ultimo di
Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e
mi attendeva. Stava sempre seduta su un muretto che circondava la
nostra casa. "Che cosa fa, signora?" le domandavano.
"Aspetto Sandro", rispondeva. Poi, rientrai nella
capitale. Ero diventato, con Nenni, con Saragat, membro
dell'esecutivo del partito, e con Giorgio Amendola e Bauer facevo
parte della Giunta Militare.
Venne l'8 settembre e fui a Porta San Paolo, c'erano anche Longo,
Lussu e Vassalli, e gli ufficiali dei granatieri sparavano e
piangevano: "Il re ci ha lasciati, il re ci ha traditi".
Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano verso Pescara, i
tedeschi si preparavano a liberare Mussolini, cominciava un'altra
triste e lunga storia.
E. Biagi
Quel 25 luglio 1943. Pertini
La Stampa, 7 agosto 1973

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